Pubblicato
il 23/11/2017
N. 05472/2017REG.PROV.COLL.
N. 05408/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il
Consiglio di Stato
in
sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5408 del 2016,
proposto dalla signora Helga Di Giaimo, rappresentata e difesa dall’avvocato
Alfonso Esposito, con domicilio eletto presso lo Studio Placidi in Roma, via
Barnaba Tortolini, n. 30;
contro
il Comune di Castellabate, in persona del Sindaco pro
tempore, non costituito in giudizio;
nei confronti
di
la signora Maddalena Giaimo, rappresentata e difesa
dagli avvocati Luca Grasso e Vincenzo Montone, domiciliata ai sensi dell’art.
25 c.p.a. presso la Segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, piazza Capo di
Ferro, n. 13;
per la riforma:
della sentenza del T.A.R. per la Campania - sede di
Salerno – Sez. I - n. 30 del 2016;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della signora
Maddalena Giaimo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 novembre
2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti l’avvocato Esposito e
l’avvocato Montone;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO
1.– Con il ricorso promosso in primo grado, la signora
Helga Di Giaimo impugnava la nota n. 2306 del 6 settembre 2012, con cui il
Comune di Castellabate, in relazione al rilascio del permesso richiesto per
«lavori di riqualificazione edilizia di un fabbricato ubicato in Via Marina
della Frazione S. Marco», comunicava quanto segue: «sulla base della
documentazione attualmente in possesso, [l’Amministrazione comunale] non
può procedere al rilascio del permesso di costruire in quanto gli atti notarili
trasmessi non confermano quanto dichiarato dall’interessata ovvero che i
fabbricati esistenti, per i quali si prevede l’intervento di riqualificazione,
sono stati realizzati prima dell’anno 1967».
1.1.‒ Avverso tale determinazione, la ricorrente muoveva le
seguenti censure:
- l’atto, nell’invocare l’applicazione dell’art. 10-bis
della legge n. 241 del 90, era qualificabile come atto endoprocedimentale ed
era quindi contraddittorio rispetto all’indicazione dell’autorità e del termine
per la impugnazione;
- era stato omesso l’avviso di avvio del procedimento;
- la motivazione del diniego difettava della
necessaria dimostrazione dell’interesse pubblico, idoneo a sorreggere la
sanzione demolitoria di un immobile la cui risalenza sarebbe comprovata ex
actis;
- non si era tenuto conto dell’affidamento
consolidatasi per effetto del lungo lasso di tempo trascorso dalla edificazione
del manufatto;
- l’atto non era stato preceduto da adeguata
istruttoria, attesa peraltro la mancata indicazione analitica degli atti in
possesso dell’Amministrazione sulla base dei quali era stata adottata la
contestata determinazione.
1.2.‒ Con successivo ricorso per motivi aggiunti, la
ricorrente impugnava l’ingiunzione n. 1950 del 19 agosto
2013, recante l’ordine di ripristino dello stato dei
luoghi per le opere insistenti sulla particella n. 874 del foglio n. 23 del
NCT, nonché la nota n. 2306 del 6 settembre 2013 del Comune di Castellabate
(citata nell’ordinanza ingiunzione), mai comunicata nelle forme di legge,
avente ad oggetto il diniego del rilascio del permesso di costruire, il cui
preavviso di diniego era stato impugnato con il ricorso introduttivo.
L’istante lamentava che l’ingiunzione di demolizione
(che si afferma conosciuta soltanto a seguito del suo deposito da parte della
controinteressata in data 4 dicembre 2014):
- era stata notificata irritualmente, così da
incorrere in nullità radicale, trattandosi di un atto recettizio mai entrato
nella sfera cognitiva dell’interessata;
- non conteneva la necessaria descrizione della parte
del fabbricato da demolire, ricadente sulla particella 874;
- non conteneva la necessaria valutazione dei
presupposti per l’applicazione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 34
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Quanto invece al diniego definitivo del permesso di
costruire n. 2306 del 6 settembre 2013, l’istante deduceva i seguenti vizi:
- l’atto terminale del procedimento non era mai stato
comunicato nelle forme di legge;
- in ogni caso, l’amministrazione aveva mancato di
verificare la data del presunto abuso edilizio, per giunta discostandosi dalla
ricostruzione cronologica notarile dalla quale emergerebbe che l’immobile
risale ad epoca antecedente al 1967, quindi prima dell’introduzione
dell’obbligo di conseguimento della licenza edilizia;
- l’Amministrazione, inoltre, si era limitata a
svolgere indagini catastali, senza considerare che la provenienza dell’intera
consistenza del fabbricato è ancorata ad una sentenza di usucapione in data 11
ottobre 1977 e detto immobile è parte di una maggiore consistenza di un vecchio
agglomerato urbano su cui pendono volture catastali inevase o errate.
2.– Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania,
sede di Salerno, con la impugnata sentenza n. 30 del 2016, respingeva il
ricorso.
I giudici di prime cure, in via preliminare, hanno
respinto l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo derivante
dalla natura endo-procedimentale e pertanto non lesiva dell’atto impugnato: sul
punto è stato deciso che, dal suo tenore letterale e dal fatto che
l’Amministrazione ha adottato l’ingiunzione di demolizione ponendo a suo
fondamento proprio la nota in parola, si ricava la sua essenza di atto terminale
del procedimento innescato dall’istanza edificatoria avanzata dalla ricorrente.
Nel merito del ricorso principale, la sentenza
impugnata statuisce che:
-la censura di contraddittorietà intrinseca del
provvedimento, che ne renderebbe dubbia la natura di atto endoprocedimentale
ovvero terminale, è infondata,in quanto (sulla scorta di quanto affermato
sopra) l’atto in contestazione deve ritenersi avente il valore di atto
terminale del procedimento quale diniego definitivo dell’istanza edificatoria;
- l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 non trova
applicazione nel procedimento ad istanza di parte e per la quale l’ordinamento
prevede il diverso strumento del preavviso di diniego per consentire la
partecipazione dell’interessato;
- la violazione del contraddittorio procedimentale
previsto dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non ha ricadute
patologiche sull’atto finale, in quanto il contributo che il ricorrente avrebbe
potuto offrire all’attenzione dell’Amministrazione in caso di partecipazione
procedimentale non era suscettibile di indurre determinazioni di segno diverso;
- quanto al lamentato difetto di istruttoria,
incombeva sull’interessato l’onere di fornire la prova circa l’edificazione
dell’immobile fuori dal perimetro del centro abitato prima del 1° settembre
1967, al fine di escludere la necessità del titolo edilizio; l’Amministrazione
comunale, per contro, ha dato ampia contezza delle risultanze istruttorie
acquisite agli atti del procedimento in virtù di indicazioni analitiche e
dettagliate dei relativi reperti documentali.
I motivi aggiunti sono stati ritenuti infondati, sulla
base dei seguenti passaggi argomentativi:
- i mezzi di gravame, con cui l’istante si duole del
difetto di rituale notifica sia del diniego del permesso di costruire che
dell’ordine demolitorio, sono in ogni caso infondati, in quanto la
notificazione è elemento estrinseco all’atto notificato, che può avere rilievo
solo ai fini della conoscenza dell’atto e della decorrenza dei termini di
impugnazione, ma non influisce sulla legittimità dell’atto notificato, di per
sé perfetto ed efficace;
- l’attività di repressione degli abusi edilizi non
costituisce attività discrezionale, ma del tutto vincolata, che non abbisogna
di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all'accertata
abusività delle opere che si ingiunge di demolire, di tal che nemmeno il lungo
lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell’abuso e l’adozione del
provvedimento repressivo refluisce in un più stringente obbligo motivazionale circa
la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla ingiunzione di
demolizione;
- quanto alla lamentata mancata descrizione della
parte del fabbricato da demolire, ricadente sulla particella 874, viene
replicato che l’indicazione degli estremi catastali dell’area di sedime, alla
luce delle risultanze esplicitate nel previo atto di diniego, costituisce
oggettiva identificazione dell’immobile da demolire;
- con riguardo alla mancata valutazione dei
presupposti per l’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 34 del d.P.R.
6 giugno 2001, n. 380, la valutazione circa la rilevanza dell’abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria deve essere
effettuata nel momento in cui, non essendo stato spontaneamente ottemperato dal
privato l’ordine di demolizione, viene emanato il conseguente ordine di
esecuzione in danno;
- i motivi di doglianza articolati
avverso il provvedimento di diniego del 6 settembre 2013 (citato
nell’ordinanza-ingiunzione) sono inammissibili, perché si indirizzano ad un
atto inesistente: sul punto, si afferma che è del tutto verosimile che
l’Amministrazione sia incorsa in errore materiale nel riportarne gli estremi
nell’ingiunzione di demolizione del 29 agosto 2013 (avendo indicato l’atto n.
2306 in data 6 settembre 2013, invece che la nota n. 2306 del 6 settembre
2012), anche perché quest’ultima non può fondarsi su di un atto adottato
successivamente.
3.– Avverso la sentenza del TAR ha proposto appello la
signora Helga di Giaimo, chiedendo, in sua riforma, l’accoglimento del ricorso
introduttivo del giudizio di primo grado.
Secondo l’appellante, il Tribunale Amministrativo
Regionale avrebbe:
- erroneamente configurato come vizio solo formale la
contestuale presenza nell’atto impugnato sia del diniego al rilascio che
dell’invito alla partecipazione di cui all’art. 10-bis L. 241/1990, dal
momento che la formulazione dell’atto avrebbe impedito la piena partecipazione
dell’interessata alla formazione del provvedimento;
- erroneamente ritenuto ininfluenti sul contenuto del
provvedimento le argomentazioni di merito che l’interessata avrebbe potuto
esporre ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990;
- erroneamente non considerato che la ricorrente aveva
ampiamente soddisfatto, con la sola dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, l’onere di provare la realizzazione dell’opera anteriormente al
1967, gravando la prova contraria sull’Amministrazione.
L’appellante ha depositato nel giudizio d’appello una
propria consulenza, secondo cui «non è possibile datare la realizzazione del
corpo di fabbrica oggetto di valutazione se non tra l’anno 1956 e 1967, nel
contempo che l’area ad oggetto di interesse, in mancanza di adeguata
certificazione documentale da parte del comune interessato, dovrebbe essere
considerata fuori dal centro abitato».
4.– Si è costituta in giudizio la signora Giaimo
Maddalena, al fine di eccepire l’infondatezza del gravame.
5.‒ Con ordinanza n. 4034 del 2016, la Sezione ‒ «Considerato, all’esito di una delibazione tipica della fase cautelare, che
l’appello risulta sorretto da sufficienti elementi di fondatezza, con
particolare riferimento alla violazione delle regole procedimentali, il cui
rispetto sarebbe stato necessario ai fini dell’instaurazione del
contraddittorio relativo all’esatta individuazione del tempo di realizzazione
delle opere contestate» ‒ ha accolto l’istanza cautelare proposta con il ricorso indicato in epigrafe.
6.‒ All’udienza del 19
ottobre 2017, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.‒ Ritiene il Collegio ‒ rimeditando l’avviso espresso in
sede cautelare ‒ che l’appello non può essere accolto.
2.‒ Costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti
elementi ‒ i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno
delle proprie affermazioni ‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in
capo all’amministrazione. Solo l’interessato infatti può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e,
in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione
demolitoria.
2.1.‒ Su queste basi, l’appellante nel corso del giudizio di primo grado non ha fornito elementi
idonei a comprovare la preesistenza del manufatto, nella sua attuale
consistenza, rispetto all’entrata in vigore della legge 6
agosto 1967, n. 765.
2.2.‒ Al contrario, l’Amministrazione comunale ha fornito molteplici risultanze documentali che
attestano la datazione posteriore al 1967 dell’immobile in contestazione, per come oggi appare.
Nell’anno 1977, la costruzione (individuata in catasto
al foglio 23, particella n. 6) era costituita da una piccola abitazione a piano
terra.
Difatti, la sentenza di accertamento dell’usucapione,
pronunciata in favore del signor Di Giaimo Costantino dalla Pretura di Agropoli
in data 11 ottobre 1977, individuava come oggetto dell’acquisto a titolo
originario i seguenti beni:
- «abitazione sita alla via Marina n. 30 di S. Marco
di Castellabate, in catasto alla partita n. 215, fol. 23 n. 6 piano terra»;
- «porzione di terreno circostante, riportato al
catasto terreni di Castellabate alla partita n. 2759 fol. 23 n. 552».
Dall’esame dei successivi atti di trasferimento,
emerge che la consistenza dell’immobile si è andata via via incrementando nel
corso degli anni.
Nell’atto di donazione del 24 aprile 1986, una parte
dell’immobile ‒ foglio 23, particella 6/b, in seguito particella 872 ‒ viene indicata
come «piccolo fabbricato semidiruto,
composto di un piccolo vano a piano terra e piccolo vano soprastante».
Con atto di compravendita n. 179913/14786 dell’anno
1990, viene trasferita l’altra porzione dell’immobile ‒ foglio 23,
particella 6, sub 1 ‒ descrivendola in termini di «fabbricato a due elevazioni fuori terra, costituito da un vano a piano
terra e da un vano a primo piano avente accesso da scala esterna».
Con donazione del 2010, sono state trasferite
all’odierna appellante entrambe le anzidette particelle, la cui consistenza
viene descritta in termini di: «ingresso, deposito, una camera da bagno con
piccola corte esclusiva al piano terra»; di «cucina, bagno, antibagno e
terrazzo al piano primo”; “un vano al piano terra ed un vano al piano primo».
Ebbene, gli interventi edilizi che, dal 1977 al 2010,
hanno aumentato il volume e le altezze dei beni indicati con la particella
catastale foglio 23, n. 6, sono stati realizzati in assenza di titoli edilizi
che abilitassero tali trasformazioni.
La consulenza tecnica disposta dalla Procura della
Repubblica di Vallo della Lucania ‒ nei procedimenti penali n. 556/2015
e n. 656/2015 ‒ non fornisce elementi che contraddicono tale ricostruzione dei fatti.
Il consulente ‒ al fine di dimostrare che l’immobile non era esistente all’epoca di vigenza della legge urbanistica del 1942 ‒ afferma che,
anche nell’anno 1956, il fabbricato «sembra
risultare NON PRESENTE anche se […] si nota, a differenza della foto del 1943,
una zona in qualche modo antropizzata, ma non sembra trattarsi di fabbricato
edile nel senso più stretto del termine».
Non viene così messo in discussione che l’immobile è
stato più volte ampliato dal 1977 al 2010, in assenza dei necessari titoli
abilitativi.
2.3.‒ Peraltro, va rimarcato come anche per gli edifici
anteriori al 1967 era necessario munirsi di licenza per edificare per gli
immobili situati all’interno dei centri urbani (l’obbligo
di richiederla era previsto infatti dall’art. 31 della legge n. 1150 del 1942).
L’appellante non ha mai comprovato l’esternalità
dell’immobile di causa rispetto al centro urbano.
2.4.‒ Nel corso del giudizio di appello, l’appellante ha depositato una consulenza tecnica di parte. Sul punto,
l’eccezione di inammissibilità del deposito per violazione dell’art. 104,
secondo comma, c.p.a., deve essere accolta.
In termini generali, il principio del divieto di
ammissione di nuovi mezzi di prova ‒ il quale riguarda anche le prove
precostituite, quali i documenti ‒ è derogabile soltanto in presenza di una causa non imputabile, che abbia
impedito alla parte di esibirli in primo grado, ovvero subordinatamente alla
valutazione della loro indispensabilità, la quale peraltro non va intesa come
mera rilevanza dei fatti dedotti, ma postula la verificata impossibilità di
acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse
l’onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale.
Sennonché, nel caso di specie, l’interessato non ha
dedotto di non aver potuto precedentemente produrre tale mezzo di prova per
causa a lui non imputabile.
Inoltre ‒ posto che il nuovo mezzo di prova,
per essere ammissibile in appello, deve apparire non semplicemente “rilevante”
ai fini del decidere, bensì dotato di quella speciale efficacia dimostrativa
che si traduce nella capacità di fornire un contributo decisivo
all’accertamento della verità materiale, conducendo ad un esito, per così dire,
“necessario” della controversia ‒ la suddetta consulenza non offre
comunque alcuna dimostrazione del fatto che gli incrementi volumetrici da
demolire sono state realizzati tra il 1956 ed il 1967.
Quanto infine alla richiesta di disporre una
verificazione o una consulenza tecnica, è dirimente osservare che tali mezzi
istruttori non possono essere invocati al fine di supplire al mancato
assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato.
3.‒ L’appellante
lamenta la violazione delle regole sulla partecipazione e che sono mancati
l’avviso di avvio del procedimento e la comunicazione delle ragioni ostative
all’accoglimento dell’istanza di permesso di costruire, il che le avrebbe
impedito di opporsi fattivamente al diniego del provvedimento.
La censura è infondata.
3.1.‒ L’art. 21-octies,
comma 2, secondo periodo, l. 7 agosto 1990 n. 241 ‒ nel disporre
che il mancato avviso di avvio del procedimento non comporta l’illegittimità del provvedimento conclusivo ove l’Amministrazione sia in grado di comprovare, in giudizio, che il
provvedimento non poteva avere un contenuto dispositivo diverso ‒ non ha inteso
onerare quest’ultima di una ‘prova diabolica’, e cioè della dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto avere un
contenuto diverso in relazione a tutti i possibili contenuti ipotizzabili.
Pertanto, si deve comunque porre previamente a carico
del privato l’onere di indicare quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto
nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare
l’Amministrazione verso una determinazione diversa da quella assunta (Consiglio
di Stato, sez. V, 18 aprile 2012, n. 2257).
Nel caso di specie, le risultanze documentali addotte
dall’Amministrazione non sono state nel corso del giudizio contraddette
dall’appellante con riscontri di segno contrario, idonei ad incidere sul
provvedimento finale, sulla scorta di una prognosi ex ante.
Deve quindi concludersi che la partecipazione al
procedimento non avrebbe determinato un provvedimento diverso da quello
adottato.
3.2.‒ Anche con riguardo alla violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, deve richiamarsi la regola
per cui non ha rilievo invalidante il vizio del procedimento, qualora il
contenuto del provvedimento finale non sarebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato.
L’istituto del preavviso di rigetto ha lo scopo di far
conoscere alle amministrazioni le ragioni fattuali e giuridiche
dell’interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi
competenti una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di
tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del
contenzioso fra le parti.
Tuttavia, tale scopo viene meno ed è di per sé
inidoneo a giustificare l’annullamento del provvedimento nei casi in cui il suo
contenuto non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia
perché vincolato, sia perché sebbene discrezionale sia raggiunta la prova della
sua concreta e sostanziale non modificabilità (ex plurimis, Consiglio di
Stato, sez. III, 1° agosto 2014, n. 4127).
4.‒ Quanto all’ordine di demolizione, l’appellante ne
deduce l’illegittimità, per difetto di motivazione e violazione del legittimo affidamento.
Entrambi i profili di censura sono infondati.
4.1.‒ Il Collegio fa proprie le considerazioni da ultimo
espresse dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato n. 9 del 2017, relativa proprio alla ipotesi di edificazione avvenuta
nella totale assenza di un titolo legittimante, in cui l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso
di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione
nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente
radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario
dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a
ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso
edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi
dell’autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di
connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo
edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza
titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a
una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso
l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che
l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del
tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo
al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul
punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito
dell’autotutela decisoria. Ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal
radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza
piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario
dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia
stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse. Si osserva
in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria
della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di
primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il
proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la
doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il
responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un
peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il carattere reale
dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di
valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale
può – al contrario – rilevare a fini diversi da quelli della misura
ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il
responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto
abusivo, anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare l’ordine di
demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive (cfr. C.d.S.,
Sez. VI, 21 marzo 2017, n. 1267; Sez. VI, 6 marzo 2017, n. 1060 e n. 1058; Sez.
V, 11 luglio 2014, n. 3568; Sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955): quando è
realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo
affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo
con cui l’amministrazione – a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la
connivenza degli organi pubblici pro tempore – abbia emanato il provvedimento
che la legge impone di emanare immediatamente (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21 marzo
2017, n. 1267; Sez. VI, 6 marzo 2017, n. 1060, cit.).
5.‒ Con ulteriore censura, articolata con i motivi
aggiunti, l’appellante si duole del fatto che
l’ordinanza di demolizione avrebbe dovuto descrivere analiticamente la quota
parte dell’immobile ricadente sulla particella n. 874 sottoposta ad ordine
ripristinatorio, nonché avrebbe dovuto motivare circa la possibilità di
sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria.
Anche questi motivi sono infondati.
5.1.‒ Il tenore complessivo dell’atto ‒ ed in particolare la motivazione del diniego di concessione edilizia,
incentrata sul fatto che «gli atti notarili trasmessi non
confermano quanto dichiarato dall’interessata ovvero che i fabbricati
esistenti, per i quali si prevede l’intervento di riqualificazione, sono stati
realizzati prima dell’anno 1967» ‒ rende evidente
che l’ordine di demolizione delle opere
insistenti sulla particella n. 874 del foglio n. 23 riguarda soltanto gli
incrementi volumetrici successivi alla sentenza della Pretura del 1977 e non il
fabbricato nella sua interezza.
5.2.‒ L’art. 34 del
d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma,
che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una
sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria
con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve
essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione
(Consiglio di Stato, sez. VI, 12 aprile 2013, n. 2001): il dato testuale della
legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio per il quale,
accertato l’abuso, l’ordine di demolizione va senz’altro emesso.
Ciò posto, rileva inoltre il Collegio che la norma è
anche chiara nel riferirsi soltanto al caso in cui si sia in presenza di opere
realizzare in parziale difformità dal permesso di costruire.
Nella fattispecie in esame, non sussistono i
presupposti applicativi previsti dalla suddetta normativa. L’appellante,
infatti, ha realizzato le opere contestate in assenza di titolo abilitativo e
non già in parziale difformità da esso.
La mera circostanza che esse si risolvano
nell’ampliamento di un’opera preesistente non rende applicabile la norma in
esame, la quale, infatti, presuppone che vengano in rilievo gli stessi lavori
edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo abilitato e in
parziale difformità da esso, ma non anche due autonomi interventi edilizi di
cui uno (pregresso) sorretto da permesso di costruire e l’altro (successivo)
privo di esso (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 1° giugno 2016, n. 2325).
6.– L’appello, dunque, va integralmente respinto.
6.1.– La liquidazione delle spese del secondo grado di
giudizio, segue la regola della soccombenza secondo la regola generale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 5408 del 2016, come in
epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento dello spese di lite
in favore della controparte costituita, che si liquidano in € 3.000.00
(tremila), oltre IVA e CPA come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del
giorno 9 novembre 2017, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
Italo Volpe, Consigliere
L'ESTENSORE
|
IL PRESIDENTE
|
|
Dario Simeoli
|
Luigi Maruotti
|
|
IL SEGRETARIO