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giovedì 27 giugno 2013

DURA LEX SED NON LEGIT


C'è un Presidente di Tribunale che incorre troppo spesso in errori materiali nei suoi provvedimenti. 
Così, da una pagina all'altra della medesima sentenza, cambiano i nomi degli imputati o le somme che il marito deve alla moglie oppure le date per il rilascio dell'appartamento  da parte degli inquilini.
Ma si può giustificare qualche errore per chi è obbligato a scrivere e non ha tempo per leggere.
Il problema è che a leggere ci pensano le parti in causa e quando scoprono tanta trascuratezza si fanno una certa idea della giustizia, idea purtroppo vera ma da diffondere con più cautela.
Per fortuna arriva l'estate: sui giornali si consigliano i libri di successo ma questo Presidente non se ne occupi, se proprio volesse intrattenersi con la lettura gli basterà correggere le sue sentenze.

lunedì 3 giugno 2013

CHIARE LETTERE (8)


Una vera classe dirigente ci salverà dai raccomandati

di Gian Arturo Ferrari dal Corriere della Sera del 1′ giugno 2013
Secondo Denis Mack Smith, storico inglese che si occupò a lungo di noi, molti dei nostri guai sono dipesi dall’assenza in Italia di una grande aristocrazia, consapevole del proprio ruolo nazionale e portatrice soprattutto dì una larga visione del futuro. Al suo posto abbiamo avuto le anguste consorterie degli staterelli preunitari, nidi di nobili, per usare la felice espressione di Turgenev, e nidi anche di meschine ambizioni e rapaci appetiti. Viluppi di interessi, più che altro, come ancor oggi ben si vede. Quel che Mack Smith aveva in mente era, come è ovvio, la superba aristocrazia postcromwelliana che aveva fatto grande l’Inghilterra tra fine Seicento e inizio Ottocento. Ma il medesimo ragionamento si sarebbe potuto ripetere per l’Ottocento inoltrato, pensando in Germania all’alto ceto militar-accademico ovvero in Francia alla compagine dei servitori dello Stato, o meglio della République. Ciascuno di questi corpi si assunse, nel bene e nel male, il compito di essere lo scheletro della nazione, di essere insieme il depositario dell’identità nazionale, l’esploratore del suo futuro e l’organo di scelta dei propri successori.
A ben vedere dunque, quel che all’Italia è principalmente mancato è stato un metodo di formazione e selezione della classe dirigente, di conseguenza un sistema di valori e di comportamenti condivisi e da ultimo la prospettazione di un orizzonte comune verso il quale dirigersi. Gli espedienti individuali per farsi strada nella vita — leggansi le raccomandazioni — si infrangono, in genere, di fronte a un chiaro quadro di obiettivi e a una misura dei meriti nella capacità di perseguirli. A queste debolezze congenite nel nostro processo di unificazione nazionale cercò di ovviare il fascismo autoattribuendosi, cioè attribuendo all’Italia, un ruolo da grande potenza. Il crollo rovinoso di questa fantasia puerile, seguito immediatamente dalla lunga tutela della Guerra Fredda — un’epoca nella quale eravamo ufficialmente esentati dal pensare al nostro destino, perché ci pensavano altri — ha generato la pericolosa illusione che i problemi irrisolti potessero tranquillamente restare tali.
La Guerra Fredda è finita, più tardi la crisi economica ha stretto tutti alla gola e si è cominciato a vedere nelle proprie tasche che cosa significhi appartenere a una nazione o all’altra. Tutte le debolezze che avevamo nascosto sotto al tappeto sono venute impietosamente in luce. Per questo, in una sindrome Schettino generalizzata, ognuno ha cercato e cerca di saltare sul mezzo di salvataggio più prossimo, incurante non solo del decoro, ma della più elementare decenza. Non solo violando le regole, ma letteralmente calpestando il prossimo e i suoi diritti.
Ha fatto benissimo il presidente Napolitano a richiamare l’attenzione sul fenomeno delle raccomandazioni, soprattutto per quanto riguarda il primo impiego di tanfi giovani. Può sembrare, questo, un tratto della bonaria Italia degli anni Cinquanta, l’ennesimo ritorno dell’Alberto Sordi eterno, vero e fondamentale archetipo dell’italiano. Non è così e questo non è un richiamo rituale. Chiunque viva nel mondo reale può vedere con i propri occhi una crudezza completamente nuova. La ferocia della competizione, l’uso di ogni mezzo, il soffocamento e umiliazione degli sconfitti, i crolli psicologici, il senso profondo dell’ingiustizia subita. Non è più il vecchio topos dei raccomandati, è la lotta elementare per la sopravvivenza. Anche gli sbandamenti politici, i rapidissimi cambiamenti di opinione, l’affidamento a nuove e nebulose divinità — la Rete — che sembrano però offrire una garanzia, oggettiva e non manipolabile, di giustizia, di equita, di eguaglianza, solo in questa luce divengono comprensibili. Chi oggi porta la responsabilità della guida del Paese ha sulle sue spalle un compito gigantesco. Non solo deve pensare all’oggi e al domani, ma a tutto quel che non si è fatto in un secolo e mezzo. I nodi sono venuti al pettine. E se i giovani ansiosi e quasi disperati possono, pur se fallacemente, sperare di trovar qualcuno da cui farsi raccomandare, l’Italia per certo non ha più nessuno che la raccomandi.