Sfogliando un
giornale mi colpisce la pubblicità di questa società che propone di assistere i
professionisti nella vendita della loro attività.
L’annuncio è
accompagnato dalla foto di un cinquantenne calvo con le borse sotto gli occhi ed
un sorriso stentato.
Presumo che
l’immagine voglia rappresentare il professionista che deve vendere e non quello
che in ciò lo assisterebbe, perché altrimenti l’intento promozionale mi
sembrerebbe fallito.
Dunque, in
questo funereo clima di crisi economica, pure si manifesta un mercato
interessato agli studi professionali.
Ma cosa si
vende?
I clienti non
sono trasferibili, anzi, per la precisione non sono trattenibili e possono in
qualunque momento essere acquisiti offrendogli servizi più convenienti.
Con lo sviluppo
delle comunicazioni telematiche anche la posizione logistica diventa sempre
meno rilevante.
La
professionalità è un concetto astratto, difficile assicurarsela pagando un
prezzo.
Parlare di
avviamento mi sembrerebbe improprio, irrealistico poi in tempo di crisi.
Ma allora cosa
si vende, cosa si vuole acquistare?
Per me l’unico
valore che uno studio professionale conserva è la sua divergenza, la distanza
dalle modalità consolidate ed applicate in modo consuetudinario.
Credo sia
l’unica cosa che interessi acquisire, magari per sopprimerla se disturbasse
troppo la standardizzazione delle procedure.
Per chi vuole
conservarla si fa intravedere il pericolo di somigliare a quello della foto:
senza capelli, senza cravatta e probabilmente senza più illusioni.
Dice il
proverbio che chi disprezza vuol comprare, ma il professionista non può vendere
ciò che non è suo, ovvero la libertà per tutti di farsi assistere da chi gli pare, anche se ha una faccia da
sfigato.