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domenica 16 novembre 2014

CRONACHE GIUDIZIARIE (2): IMBIANCATURA SEPOLCRI

Avvocati troppo "casual": toghe e bavaglini per tutti

La Corte d'appello richiama i legali al rispetto delle norme. Dal primo gennaio "divisa" obbligatoria nel corso delle udienze

Luca Fazzo - IL GIORNALE  Sab, 15/11/2014 - 08:27

Milano - Si dirà: i problemi della giustizia sono ben altri. Ma mentre si mette mano (o si cerca di farlo) alle riforme che dovrebbero tagliare i tempi biblici che portano all'esasperazione i cittadini, ai processi che durano vent'anni e sopravvivono ai contendenti, ai giudici che dimenticano di scrivere le sentenze eccetera, anche stare attenti alle forme può avere una sua importanza.
Questo hanno deciso a Milano, in Corte d'appello, mettendosi sulla scia di quanto già avviene a Roma o a Torino. Anche nelle udienze dei processi civili, toga obbligatoria per tutti; e insieme alla toga il «bavaglino», accessorio dalle origini incerte e dalla utilità non chiara. Giacca e cravatta non bastano a garantire quel minimo di decoro che fa parte dei riti, e in qualche modo della sostanza, della giustizia.
Lo ha deciso Giovanni Canzio, presidente della Corte d'appello di Milano: un magistrato con la fissa dell'efficienza (tanto da venire accusato di «aziendalismo»), che quando è arrivato a Milano ha messo sotto pressione un palazzo di giustizia dove i ritmi di lavoro si erano fatti blandi, e dove sotto l'alibi della mancanza di personale si accumulavano arretrati. Per Canzio la prova milanese doveva essere il trampolino verso la presidenza della Cassazione. Invece la riforma di Renzi ha avviato anche lui, come tutte le toghe settantenni, verso la pensione. Ma Canzio, evidentemente, non ha rinunciato a lasciare la sua traccia anche estetica.
L'idea, a dire il vero, nasce quasi dal basso, nei preliminari di una riunione dei presidenti di sezione: anche loro abituati a presentarsi in udienza in abiti borghesi. Qualcuno solleva il problema del decoro di udienza, dopo una discussione collettiva i giudici decidono: si torna al passato, alle consuetudini abbandonate. D'ora in poi, andiamo in udienza con la toga e il bavaglino. E, per par condicio , dovranno farlo anche gli avvocati. Il 3 novembre scorso Canzio scrive all'Ordine degli avvocati annunciando la novità. Per assicurare «il dovuto rispetto anche delle forme di esercizio della giurisdizione e di rendere più saldo il prestigio di coloro che ne sono protagonisti», tutte le «udienze pubbliche» dovranno adeguarsi al nuovo look .
La regola esisteva, non veniva rispettata, e che questo accadesse nel tempio della giustizia era probabilmente un segnale negativo. Questo lo spirito della svolta voluta da Canzio: a costo di sfidare brontolii e battute. C'è chi fa presente che i giudici stanno seduti al loro posto, mentre gli avvocati spesso devono aspettare in piedi e a lungo; c'è chi fa presente che non sempre è chiaro, spulciando tra il codice di procedura civile e le sue norme di attuazione, quali udienza siano pubbliche e quali semplici camere di consiglio, e come tali esonerate dall'obbligo di toga; e c'è ovviamente chi se la prende con il maquillage di una giustizia che nella sostanza continua, con buona pace degli sforzi di Canzio, a mostrare tutti i suoi difetti. La vita quotidiana della giustizia milanese continua ogni giorno a arricchirsi di episodi che mostrano una realtà non facile: giudici che vengono accusati di maltrattare gli avvocati, e - questa è recente - persino giudici che bisticciano tra di loro in udienza, davanti agli avvocati allibiti, «guarda che il presidente sono io», «sta zitto tu che stai per andare in pensione»; e in fondo anche il caso di Enrico Tranfa, il giudice del processo Ruby, andato precipitosamente in pensione lasciandosi alle spalle quasi centoventi sentenze da scrivere, è il segnale di una struttura dove non tutto funziona a dovere. Il mugugno verso l'aziendalismo di Canzio anima i dibattiti da corridoio, e talvolta gli imputati hanno la sensazione di pagare loro il malumore dei giudici. Da domani, i guai della giustizia saranno gli stessi. Ma chissà mai che quella toga e quel bavaglino non richiamino tutti a fare meglio il proprio dovere.

martedì 11 novembre 2014

INFERMITA' DIPENDENTE DA CAUSA DI SERVIZIO ED ANNULLABILITA' DEL DINIEGO





La sentenza qui riportata chiarisce un rilevante principio relativo alle istanze avanzate dai pubblici dipendenti perché sia dichiarata la dipendenza da causa di servizio di una loro infermità.
Gli organismi incaricati di dichiarare tale dipendenza molto spesso si avvalgono di clausole generiche per negarne l’esistenza.
Ma il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza del 25 07 2006 n° 4624, ha chiarito che “l’esistenza di un carattere endogeno e costituzionale della malattia o la predisposizione ad essa non possono essere di ostacolo all’eventuale riconoscimento della causa di servizio, dovendosi poter escludere con certezza che il servizio abbia provocato l’episodio acuto
Sulla scorta di tale principio il T.A.R. della Campania, sez. I di Salerno, con sentenza n° 2221/2013 aveva già dichiarato l’insufficienza motivazionale del provvedimento che, per escludere il nesso eziologico tra patologia ed attività lavorativa, si limiti ad evocare le condizioni generiche che potrebbero aver determinato la patologia.
Infatti “qualora sia da escludere l’esistenza, all’origine dell’infermità, di effettivi fattori predisponenti individuali e, nel contempo, il servizio prestato presenti oggettivi condizioni di surmenage, la sussistenza tra la patologia e l’attività lavorativa di un nesso causale o concausale non può che risultare accreditato, se non su un piano di certezza (difficilmente raggiungibile in tali ipotesi), quantomeno di seria verosimiglianza.”
Nella fattispecie decisa dalla suddetta sentenza, “nonostante il ricorrente avesse, nella domanda presentata, analiticamente precisato le modalità di svolgimento del servizio tali da attribuirgli, nella sua prospettiva, carattere particolarmente stressante, l’Amministrazione non ha proceduto ad una congrua verifica finalizzata ad accertare (…) l’incidenza causale o concausale sull’insorgenza della patologia de qua, limitandosi ad affermare, del tutto tautologicamente, l’assenza di situazioni …”
In queste ipotesi il Giudice Amministrativo rileva che, per il diniego, “la sua insufficienza motivazionale scaturisce, in primo luogo, dalla sua palese genericità, sia perché i possibili fattori causali alternativi di carattere individuale, tali da provocare astrattamente l’insorgenza dell’infermità, non sono puntualmente indicati, sia perché nessuno sforzo istruttorio o motivazionale è stato compiuto dall’Amministrazione”.

Peraltro il Consiglio di Stato, sez IV, con decisione n° 4476 del 06 08 2012,  ha ritenuto che il comitato di verifica per le cause di servizio ha comunque il dovere, in applicazione dei principi generali fissati dall’art. 3 L. 241/1990, di prendere in esame tutte le variabili suscettibili di determinare l’insorgenza della malattia, verificando con puntualità se l’attività lavorativa abbia costituito o meno un rischio specifico.


Il precedente orientamento giurisprudenziale che considerava prevalente il parere espresso dal Comitato di Verifica, tale orientamento è stato minato da quelle pronunce (Cfr. T.A.R. Calabria, sez. Reggio Calabria, n° 25/2013) che distinguono le diverse antinomie riscontrabili tra i pareri espressi nel procedimento in fattispecie.
Se infatti il contrasto concerne il giudizio espresso dalla Commissione Medica rispetto a quello espresso dal Comitato di Verifica, si dovrà attribuire prevalenza a quest’ultimo, in ragione della peculiare composizione e specializzazione.
Ma quando invece, come nel caso concreto, si censura per difetto/errore motivazionale, sulla scorta di un parere medico-legale, proprio il giudizio del Comitato di Verifica, allora “è necessario che il sindacato del giudice amministrativo non si arresti di fronte ad una precostituita presunzione di preferibilità del giudizio tecnico rispetto a quello di parte, perché ciò produrrebbe evidenti ed incontrollabili vuoti di tutela” (Cfr. anche TAR Reggio Calabria, ord. n° 349 del 20 04 2011, sentenza n° 353 del 10 03 2011; n° 457 del 25 05 2011 e ord. n° 205 del 07 03 2012).
E’ opportuno, sul punto, sottolineare che l’effettività della tutela giurisdizionale può ritenersi garantita solo se il  sindacato sull’esercizio della discrezionalità tecnico-amministrativa non sia meramente estrinseco, ossia limitato ad una verifica superficiale sull’assenza di palese travisamento e manifesta illogicità. La giurisprudenza amministrativa ha infatti negato l’equazione tra discrezionalità tecnica e merito insindacabile (Cfr. TAR LAZIO, ROMA, sez. II, 23 07 2012 n° 6798), ritenendo invece che il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della Pubblica Amministrazione debba svolgersi non come mero controllo formale dell’iter logico seguito ma mediante verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche, potendo il giudice utilizzare lo strumento della verificazione di cui all’art. 66 D.Lgs. 104/2010.
Nella fattispecie concreta il ricorrente, con perizia medica di parte, aveva prospettato la riconducibilità della sua patologia allo specifico servizio prestato, per le peculiari caratteristiche di impegno fisico cui era stato sottoposto.
Il provvedimento di diniego si era  limitato a ricondurre l’insorgere della patologia alle condizioni soggettive del ricorrente ma con formule generiche ed approssimative.

Tali modalità  non sono rispettose del principio secondo il quale il provvedimento che nega la dipendenza da causa di servizio deve basarsi su “indagini di fatto dirette a valutare il tipo di infermità, l’ambiente nel quale l’attività lavorativa viene prestata e la sua connessione con l’insorgere della malattia” (Cfr. TAR Sicilia, sez. III, 12 06 2012 n° 1522; TAR LAZIO, Roma, sez. IIIbis, 28 06 2006 n° 5304).