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lunedì 19 settembre 2016

MATRIMONIO CONCORDATARIO – TRASCRIZIONE NEI REGISTRI DELLO STATO CIVILE – EFFETTI – MANCATA TRASCRIZIONE DEL REGIME PATRIMONIALE FACOLTATIVO – INEFFICACIA DEL REGIME DI SEPARAZIONE DEI BENI.






Ai sensi dell’art. 8 L. 121/1985, la trascrizione dell’atto di matrimonio contratto dinanzi al ministro di culto cattolico conferisce all’atto stesso l’idoneità a produrre effetti civili nell’ordinamento italiano. Per effetto di tale norma gli effetti civili destinati a prodursi per effetto della conclusione di un matrimonio concordatario sono quelli propri dell’atto di celebrazione del matrimonio trascritto nei registri dello stato civile, ossia quelli di cui l’atto trascritto contiene tutti gli elementi previsti dalle singole fattispecie. La trascrizione dell’atto assolve, dunque, alla funzione di conferire efficacia ad un atto concluso in forme diverse da quelle previste nel nostro ordinamento; conseguentemente, anche la scelta per il regime patrimoniale della separazione dei beni contenuta nell’atto di matrimonio concluso dinanzi ai ministri di culto cattolico, è idonea a spiegare effetti nell’ordinamento vigente solo se della scelta vi è menzione nell’atto trascritto, a seguito dell’indiretto conferimento di efficacia alla convenzione;
La mancata indicazione nell’atto di matrimonio trascritto del regime di separazione dei beni comporta l’impossibilità di riconoscere efficacia alla dichiarazione effettuata dalle parti dinanzi al ministro di culto.




Nel caso in esame, a seguito di ricorso per separazione giudiziale, il Giudice delegato, nell’assumere i provvedimenti temporanei ed urgenti ex art. 708 c.p.c., attribuiva al marito l’abitazione della casa coniugale, ritenendo che ne fosse esclusivo proprietario, tuttavia il presupposto della esclusiva titolarità della casa coniugale risultava erroneo, considerato: 1) che l’immobile  era stato acquistato con atto pubblico in data successiva alla celebrazione del matrimonio; 2) che dal registro degli atti di matrimonio del Comune non risultava che i coniugi, alla celebrazione del matrimonio, avessero scelto il regime patrimoniale della separazione dei beni.
Pertanto, con ricorso ex artt. 700, 708 e 177 cpc, la moglie chiedeva in via cautelare la modifica dell’ordinanza presidenziale e l’attribuzione della casa coniugale, ritenendo di esserne comproprietaria in forza dell’art. 177 C.C.
Nel costituirsi il marito esibiva certificato rilasciato dal parroco nel quale si attestava che, alla celebrazione del matrimonio, i coniugi avevano fatto dichiarazione di scegliere il regime patrimoniale di separazione dei beni.
Il Giudice adito, pur constatata la omessa menzione nei registri comunali della scelta del regime patrimoniale coniugale, rigettava il ricorso motivando che “non può negarsi che i coniugi, in sede di celebrazione, abbiano effettivamente scelto il regime di separazione in maniera sicuramente valida ex art. 162 Cod. Civ..
Ad opinione della ricorrente tale motivazione costituiva una errata applicazione delle norme che disciplinano la trascrizione delle convenzioni matrimoniali, infatti:
I) Il giudice adito ha ritenuto non indispensabile, ai fini dell’efficacia, la trascrizione nei registri dello stato civile delle convenzioni matrimoniali stipulate nel corso del matrimonio; per individuare i principi che disciplinano la fattispecie è opportuno richiamare brevemente le norme di riferimento.
L’art. 162 cod. civ., stabilisce che “le convenzioni matrimoniali devono essere stipulate per atto pubblico, a pena di nullità”, ed al comma 2 che “la scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio”. Tuttavia tale norma disciplina esclusivamente le convenzioni patrimoniali dichiarate nel corso del matrimonio civile, celebrato innanzi all’Ufficiale di Stato civile, mentre, ai sensi dell’art. 82 cod. civ. i matrimoni celebrati davanti al ministro del culto cattolico sono regolati dalla legge speciale del 25 marzo 1985 n°121, contenente modifiche al concordato lateranense del 1929.
In particolare l’art. 8 L. 121/1985 statuisce che “sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale”. In altri termini, la trascrizione dell’atto di matrimonio nei Registri dello stato civile costituisce condizione necessaria perché ai matrimoni canonici possano essere riconosciuti effetti civili, tra i quali quelli derivanti dalla scelta del regime patrimoniale speciale di separazione dei beni.
Riguardo al termine per la trascrizione è inoltre previsto che “la richiesta di trascrizione è fatta per iscritto dal parroco non oltre cinque giorni dalla celebrazione. L’Ufficiale di stato civile, ove sussistano le condizioni per la registrazione, la effettua entro ventiquattr’ore dal ricevimento dell’atto”.
In merito infine alla possibilità di una trascrizione tardiva è stabilito che “la trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti o anche di uno di essi con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro”.   
Tale disciplina normativa della trascrizione degli atti nel matrimonio religioso cattolico è finalizzata alla costituzione di formalità idonee a garantire l’effettiva corrispondenza della volontà di entrambi i coniugi a quanto da essi dichiarato nel corso della celebrazione religiosa nonché la pubblicità di tali dichiarazioni. Infatti, come ben chiarito nella norma richiamata,  il parroco celebrante non acquista la qualità di pubblico ufficiale per il solo fatto di celebrare il matrimonio, perché tale qualità è condizionata all’ulteriore requisito  della trascrizione dell’atto nei registri dello stato civile. (Cfr. sul punto Cass. Civ. sez. I, 19 06 2001 n° 8312). Pertanto il matrimonio religioso non produce quegli effetti civili, quali il regime patrimoniale speciale, la cui scelta non si sia manifestata nelle forme richieste dalla legge.
La ratio della norma, individuata nella necessità che, per l’esercizio delle potestà di controllo e di pubblicità indispensabili alla valida costituzione di un regime patrimoniale speciale, l’attività del ministro religioso sia integrata da quella del pubblico ufficiale civile, è ribadita nella disciplina della trascrizione tardiva, che è consentita solo su congiunta richiesta dei coniugi ovvero con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro.
Tale specifica previsione dimostra ulteriormente come la semplice volontà dei contraenti, pur inequivocabilmente espressa all’atto della celebrazione e così raccolta dal celebrante, non è sufficiente alla produzione di effetti civili, giacchè, ove la trascrizione non sia stata effettuata nel breve termine di cinque giorni dalla celebrazione, la volontà dei coniugi perde ogni efficacia ed è necessario che sia rinnovata in una formale istanza congiunta rivolta all’Ufficiale di stato civile.
Il punto trova conferma nel principio giurisprudenziale secondo il quale “la frattura temporale tra celebrazione e trascrizione esclude ogni rilevanza ad una volontà precedentemente espressa di ottenere la trascrizione del vincolo manifestata in occasione degli adempimenti stessi” (C.fr. Cass. Civ., sez. I, 24 03 1994 n° 2893).
Infatti la volontà dei coniugi di optare per il regime della separazione dei beni – insita negli stessi adempimenti che devono accompagnare la celebrazione religiosa (le preventive pubblicazioni, la lettura degli articoli del Codice Civile, la redazione dell’atto di matrimonio in doppio originale) – se può essere presunta quando il procedimento preliminare alla trascrizione avvenga con la normale concentrazione prevista dalla legge, non può più esserlo quando si verifica una “frattura temporale” tra gli atti espressivi della volontà indirizzata agli effetti civili e gli atti successivi di richiesta e relativa trascrizione.
II) Alla luce delle considerazioni svolte, il principio adottato dal Giudice che ha rigettato l’istanza cautelare, secondo il quale per la scelta del regime patrimoniale speciale sarebbero sufficienti le dichiarazioni rese dai coniugi innanzi al ministro religioso, appare palesemente difforme dalla disciplina normativa di specie.
E’ altresì opportuno sottolineare che tale principio, se applicato, produrrebbe evidenti distorsioni nel sistema  delle convenzioni patrimoniali, infatti:
A)    Il nostro ordinamento non attribuisce alle dichiarazioni rese innanzi al ministro di un culto religioso, ove non siano rispettate le ulteriori formalità di legge, una efficacia differente rispetto ad ogni altra manifestazione di volontà  che non sia stata resa in forma pubblica. Ove invece si ritenesse che le dichiarazioni rese nel corso della celebrazione del matrimonio religioso siano produttive di peculiari effetti giuridici, tale speciale efficacia non potrebbe essere limitata alle celebrazioni cattoliche, pena la violazione del principio costituzionale della eguaglianza religiosa, ma dovrebbe, necessariamente, riguardare anche i matrimoni celebrati secondo ogni altro culto ammesso nello Stato. Pertanto, pur in assenza di ogni controllo da parte dell’autorità civile, dovrebbero ritenersi validamente costituite con la semplice dichiarazione resa innanzi al ministro religioso anche le convenzioni patrimoniali stipulate nel corso dei matrimoni celebrati, ad es., dalla chiesa valdese, dalle chiese cristiane avventiste del VII giorno o dalla comunità israelitica italiana.
B)    La dichiarazione di scelta del regime patrimoniale resa innanzi al ministro religioso resterebbe priva di quella duplice forma di pubblicità prevista per le convenzioni matrimoniali che è sì cumulativa ma prevede fini ed effetti diversi, giacchè  la trascrizione nei Registri dello stato civile ha efficacia costitutiva, mentre la trascrizione nei pubblici registri immobiliari ha solo efficacia dichiarativa-ricognitiva ai fini dell’opponibilità a terzi dell’atto.
C)    La dichiarazione resa nel corso della celebrazione verrebbe a vincolare i coniugi più della loro stessa volontà,  ove, ad es., essi, in mancanza di trascrizione tempestiva, abbiano in seguito tacitamente deciso di rinunciare alla medesima, optando così per il regime legale generale della comunione dei beni: in tale ipotesi non potrebbero far valere tale concorde volontà, manifestata tacitamente, a fronte della dichiarazione precedentemente resa innanzi al parroco celebrante, alla quale verrebbe attribuita, ipso facto, efficacia normativa.
Il Giudice del reclamo ha così accolto la prospettazione del reclamante, accertando, in via incidentale, che la mancata trascrizione del matrimonio religioso impedisce che da questo possano derivare effetti civili quali la comunione dei beni.

venerdì 16 settembre 2016

legittimazione passiva in assenza di voltura - interesse pubblico sussistente nell'erronea rappresentazione - piano casa inammissibile per frazioni d'edificio (T.A.R. Salerno 2171/2016)



Pubblicato il 13/09/2016
N. 02171/2016 REG.PROV.COLL.
N. 02462/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso, numero di registro generale 2462 del 2014, proposto da:
Squillaro Virgilio e Cannalonga Rosetta, rappresentati e difesi dall’Avv. Giulio Forleo C. F. FRLGLI83E11H501A, con domicilio eletto, in Salerno, alla via Velia, 96, presso lo studio dell’ing. Laudonio;
contro
Comune di Castellabate, in persona del legale rappresentante p. t., rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Villani C. F. VLLLGU81T07A091C, con domicilio eletto, in Salerno, Largo San Tommaso d’Aquino, 3, presso la Segreteria del T. A. R. Salerno;
nei confronti di
Russo Palma Rosa, rappresentata e difesa dall’Avv. Vincenzo Montone  C. F. MNTVCN65S26H703I, con domicilio eletto, in Salerno, Largo San Tommaso d’Aquino, 3, presso la Segreteria del T. A. R. Salerno;
Villa Luisa, non costituita in giudizio;
per l’annullamento
a) della nota, prot. n. U-0019284 del 30.07.2014 del Comune di Castellabate – Servizio 3 – Sportello Unico per l’Edilizia, con cui è stato comunicato, ai ricorrenti, “l’annullamento in regime di autotutela ai sensi dell’art. 21 octies della L. 241/90 e s. m. i., del permesso di costruire con numero di registro 3474 del 17/01/2013, inerente il cambio di destinazione d’uso da deposito a civile abitazione”;
nonché, quatenus opus est,
b) della nota prot. n. U-0012782 del 23.05.2014 del Comune di Castellabate – Servizio 3 – Sportello Unico per l’Edilizia, con cui è stato comunicato l’avvio del procedimento, volto all’annullamento in autotutela, ex artt. 7 e 8 l. 241/90, del permesso di costruire n. 3474 del 17.01.2013;
c) della nota, prot. n. 13915 del 27.06.2013, del Comune di Castellabate, Area VI – Ufficio Urbanistica, con cui è stato comunicato l’avvio del procedimento, volto all’annullamento in autotutela, ex artt. 7 e 8 l. 241/90, del permesso di costruire n. 3474 del 17.01.2013;
d) d’ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale, anche se non conosciuto;

(...)

FATTO
I ricorrenti, proprietari di una porzione di fabbricato, sito in S. Maria di Castellabate alla via Colombo, 11, premesso d’aver chiesto al Comune, in data 9.10.2012, ai sensi dell’art. 3, comma 4 (rectius: 4, comma 3), della l. r. C. n. 19/09, p. di c. per cambio di destinazione d’uso della predetta porzione immobiliare, da deposito ad abitazione, e che l’ente aveva loro rilasciato il predetto p. di c., in data 17.01.2013, con numero di registro n. 3474, ma che la controinteressata Russo Palma Rosa aveva, con nota inviata al Comune in data 26.04.2013, contestato la legittimità di tale titolo, ritenendo che lo Squillaro non poteva mutare la destinazione d’uso della porzione d’immobile de qua, essendo proprietario soltanto di essa, ma non della residua parte destinata ad abitazione; che il Comune, dopo aver comunicato loro l’avvio del procedimento, rivolto all’annullamento, in autotutela, del ridetto titolo, e dopo aver acquisito le loro osservazioni, inviava una nota, in data 30.05.2014, nella quale, ignorando completamente le loro osservazioni, notificava nuova comunicazione d’avvio del procedimento, cui faceva seguito, da parte loro, l’invio – una seconda volta – delle relative osservazioni; nonché premesso che, nelle more, con atto pubblico del 14.07.2014, i ricorrenti avevano alienato la porzione immobiliare in oggetto a Villa Luisa; tanto premesso, lamentavano come inopinatamente si fossero visti notificare il provvedimento odiernamente gravato, con il quale l’ente locale aveva definitivamente annullato il p. di c. in questione, data l’insussistenza del presupposti, previsti dall’art. 4 comma 3 della l. r. C. n. 18/2009; e articolavano, avverso il medesimo, censure impingenti, in primis, nel loro difetto di legittimazione passiva, posto che essi, “ognuno per i diritti di piena proprietà in ragione di un mezzo, avevano alienato alla sig.ra Villa Luisa l’immobile de quo, in data precedente al provvedimento impugnato”, con la conseguenza che “quest’ultima, dunque, deve essere considerata l’unico soggetto cui l’Amministrazione resistente avrebbe dovuto indirizzare il gravato provvedimento di annullamento”; sebbene, infatti, a causa dell’adozione del provvedimento, da parte del Comune, e per evitare una causa civile con Villa Luisa, i ricorrenti fossero stati costretti a riacquistare il bene, rimaneva immutata “l’illegittimità del provvedimento impugnato in quanto emesso nei confronti di soggetti all’epoca non legittimati” (era richiamata giurisprudenza a sostegno); in sostanza, a loro avviso, solo il proprietario, in virtù del proprio diritto dominicale, si trova in una relazione giuridica qualificata con l’immobile oggetto dell’abuso e, in tale veste, può attivarsi per eseguire la prescrizione ripristinatoria; ciò tanto più, se si considera che, nell’ipotesi in cui all’annullamento del provvedimento autorizzativo segua l’ordine di demolizione del presunto abuso, solo il proprietario potrebbe attivarsi al fine d’eliminarlo; fermo il dedotto difetto di legittimazione passiva, i ricorrenti segnalavano inoltre l’illegittimità del provvedimento in autotutela, per difetto dei presupposti di cui agli artt. 2l quinquies e 21 nonies della l. 241/1990, posto che, dall’analisi del medesimo, emergeva chiaramente “la mancanza dei requisiti fondamentali dei provvedimenti cd. di secondo grado”, e, segnatamente, l’omessa valutazione del pubblico interesse nonché di quello dei soggetti interessati, alla luce dell’irragionevole distanza di tempo, trascorsa dall’esecuzione dei lavori (era citata giurisprudenza a sostegno); in particolare, quanto al termine ragionevole, evidenziavano che il provvedimento di annullamento in autotutela era intervenuto a distanza di oltre 18 mesi dopo il rilascio del titolo, vale a dire oltre il termine stabilito, oggi, in maniera presuntiva dall’art. 21 nonies, come modificato dalla l. 124 del 2015; sotto un secondo profilo, il Comune di Castellabate non avrebbe motivato, in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico concreto alla rimozione dell’atto, trascurando altresì ogni valutazione sula posizione giuridica soggettiva degli odierni ricorrenti e omettendo ogni forma di contemperamento tra il presunto interesse pubblico azionato e l’affidamento legittimamente maturato dai ricorrenti sul provvedimento autorizzativo; in sostanza, “l’Amministrazione resistente ha annullato, sul mero presupposto del ripristino della legalità, un provvedimento che aveva già prodotto interamente i suoi effetti, non considerando neppure i costi sostenuti dai ricorrenti per eseguire l’opera”, “in contrasto con le esigenze di certezza che devono necessariamente orientare i rapporti tra p. a. e cittadini”; infine, lamentavano che il provvedimento d’annullamento del p. di c. era stato adottato, in violazione dell’art. 4, comma 3, della l. r. C. n. 19/2009, atteso che il Comune di Castellabate, del tutto irragionevolmente, aveva deciso di porre nel nulla un provvedimento, perfettamente conforme ai requisiti, richiesti dalla suddetta l. r., per la realizzazione di interventi straordinari d’ampliamento.
Nello specifico, tale norma stabilisce che: “Per gli edifici a prevalente destinazione residenziale, nel rispetto delle prescrizioni obbligatorie di cui al comma 4, è consentita, in alternativa all’ampliamento della volumetria esistente, la modifica di destinazione d’uso da volumetria esistente non residenziale a volumetria residenziale, per una quantità massima del venti per cento”; orbene, nel caso in esame, il cambio di destinazione d’uso, assentito con provvedimento n. 3474, era assolutamente rispondente ai predetti requisiti, atteso che tale intervento edilizio aveva riguardato una porzione di un edificio a prevalente destinazione residenziale, porzione che, conformemente a quanto richiesto dalla Legge 19/2009, rappresentava una volumetria, sicuramente inferiore al 20% del totale dell’edificio medesimo; nessuna rilevanza, al contrario, poteva riconoscersi alle doglianze della controinteressata, accolte dal Comune, secondo cui lo Squillaro non avrebbe potuto mutare la destinazione d’uso dell’immobile in questione, essendo proprietario esclusivamente di una porzione dell’immobile e non della restante parte del fabbricato, destinata ad abitazione, doglianza che non trovava fondamento nella norma richiamata, posto che l’art. 4, comma 3, della l. r. 19/2009 non fa mai riferimento alla proprietà di tutto “l’edificio” nel quale deve essere eseguito l’intervento assentito, limitandosi a richiedere che l’ampliamento riguardi un edificio a prevalente destinazione residenziale e che lo stesso non coinvolga più del 20% della volumetria totale, condizioni ricorrenti nella specie (violazione di legge ed eccesso di potere per difetto dei presupposti).
Si costituiva in giudizio il Comune di Castellabate, con memoria in cui analiticamente controdeduceva alle censure di parte ricorrente.
Si costituiva in giudizio anche la controinteressata Russo Palma Rosa, la quale premetteva, in fatto, le seguenti circostanze:
era proprietaria di abitazione ubicata in parte del piano terraneo e parte del primo piano (per complessivi circa 140 mq.) di edificio d’epoca in S. Maria di Castellabate alla via Colombo n. 11, in catasto al fol. 17 p.lla 183;
altra porzione del primo piano e il secondo piano dell’edificio (per complessivi circa 170 mq) costituivano l’abitazione di proprietà del Sig. Russo Felice, suo fratello;
al piano terraneo del medesimo era ubicato un piccolo locale di circa 37 mq, di proprietà del Sig. Squillaro Virgilio (in catasto al Foglio 17 part. 183 sub 7), con destinazione d’uso di deposito, privo dei requisiti d’abitabilità previsti dal D.M. del 05 07 1975, ovvero: - altezza minima di m 2,40; - adeguate superfici finestrate; - adeguata ventilazione dei locali; - aspirazione di fumi, vapori ed esalazioni; - ricambio d’aria nel locale bagno;
locali terranei di questo genere (comunemente denominati “bassi”) sono il prodotto delle prassi edilizie di epoche remote, quando erano destinati a magazzini per le derrate alimentari, e solo in contesti di particolare degrado venivano impropriamente utilizzati come abitazioni;
in data 9.10.2012 lo Squillaro depositava al Comune di Castellabate un’istanza per ottenere, ai sensi della l. r. 19/2009, il cambio di destinazione d’uso da deposito in abitazione del suddetto locale; nell’istanza il Sig. Squillaro veniva indicato come proprietario di immobile in catasto al foglio 17 part. 183/2;
l’immobile non aveva tuttavia i requisiti per utilizzare la normativa eccezionale della l. r. 19/2009, in quanto: 1) la normativa limita il cambio di destinazione al 20% della volumetria mentre lo Squillaro chiedeva di mutare tutta la volumetria del locale deposito ad abitazione; 2) nell’immobile di proprietà Squillaro non sussistevano le condizioni di salubrità imposte dal D.M. del 5.07.1975;
per ottenere il permesso di costruire erano state fornite all’Amministrazione attestazioni non veritiere concernenti la proprietà e l’idoneità abitativa dell’immobile;
indotto in errore dalle attestazioni non veritiere fornitegli, lo Sportello Unico Edilizia del Comune di Castellabate rilasciava il permesso di costruire n. 3474 in data 17.01.2013;
in data 26.04.2013 aveva depositato, presso il Comune di Castellabate, istanza n. 1135 affinchè fosse esercitata la vigilanza sull’attività edilizia, ai sensi dell’art. 27 d. P. R. 380/2001;
l’Ufficio Comunale riscontrava la fondatezza dell’istanza e, con provvedimento n. 13915 del 27.06.2013, comunicava allo Squillaro il preavviso d’annullamento del p. di c., invitandolo a fornire eventuali osservazioni;
successivamente, con provvedimento 12782/2014 del 23.05.2014 (notifica perfezionata il 30.05.2014), il Comune aveva reiterato il preavviso d’annullamento, invitando, ancora una volta, l’interessato a fornire informazioni o documenti utili;
il 9.06.2014 lo Squillaro depositava presso il Comune di Castellabate (prot. 14307/2014) una memoria, per contestare le motivazioni del procedimento di autotutela, e in data 14.07.1014 lo stesso, sebbene fosse in corso nei suoi confronti l’annullamento del titolo, trasferiva l’immobile, oggetto del permesso invalido, a tale Villa Luisa;
nell’atto di compravendita (pag. 5 dell’atto pubblico) la parte venditrice “dichiara e garantisce che: l’immobile oggetto del presente atto di compravendita è stato costruito in data anteriore al 1° settembre 1967; successivamente per il cambio di destinazione d’uso dell’immobile in oggetto, ai sensi della legge regionale 19/2009,è stato rilasciato dal Comune di Castellabate permesso di costruire n. 3474 (pratica 212/12) in data 17 gennaio 2013, precisando che i lavori sono terminati nei termini di legge giusta comunicazione presentata al detto Comune di Castellabate in data 14 febbraio 2013, protocollo n. 381”;
lo Squillaro ometteva dunque di menzionare il procedimento di annullamento in corso nei suoi confronti e l’immobile veniva qualificato come abitazione proprio in forza della variazione, ottenuta con il permesso invalido;
in data 30.07.2014 il Comune di Castellabate adottava il provvedimento conclusivo di annullamento in autotutela del permesso di costruire 3474/2013, notificato in data 1.08.2014 allo Squillaro, che, a tale data, risultava: - unico titolare del permesso revocato; - unico destinatario dei due provvedimenti di preavviso dell’autotutela; - unico autore di attività difensiva con memorie scritte nei confronti del Comune per contestare le motivazioni dell’autotutela; - proprietario dell’immobile dalla visura dei registri immobiliari;
in data 8.08.2014, veniva presentato per la trascrizione, agli uffici della pubblicità immobiliare, l’atto di compravendita tra i coniugi Squillaro e la Sig.ra Villa;
in data 29.08.2014 veniva depositato alla Stazione Carabinieri di S. Maria di Castellabate un esposto – denuncia contro Squillaro Virgilio per i reati di falso materiale, truffa in danno di enti pubblici e violazioni edilizie, da riscontrare nei fatti sinora illustrati.
Tanto premesso, la controinteressata esponeva le ragioni, che in diritto, s’opponevano all’accoglimento della spiegata impugnativa.
Seguiva, nell’imminenza della discussione, la produzione di memorie difensive riepilogative per i ricorrenti e la controinteressata.
Alla pubblica udienza del 5 luglio 2016, il ricorso era trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso non è fondato.
Quanto alla sua prima censura, s’osserva che il provvedimento impugnato è stato notificato, a Squillaro Virgilio, in data 1.08.2014, laddove solo in data 8.08.2014 – come dedotto dal Comune e dalla controinteressata, e non contestato dai ricorrenti – l’atto pubblico di compravendita, tra i medesimi ricorrenti e Villa Luisa, del cespite immobiliare in oggetto, veniva presentato per la trascrizione negli uffici della pubblicità immobiliare: ne deriva che legittimamente il provvedimento in questione era notificato al proprietario, essendo preclusa, al Comune, la legale conoscenza del trasferimento della proprietà dell’immobile, (ancora) non opponibile ai terzi; per di più, come correttamente rilevato dalla difesa dell’ente, non v’era stata alcuna voltura del permesso di costruire, rilasciato al ricorrente Squillaro Virgilio, sicché va applicato l’orientamento giurisprudenziale, compendiato nella massima che segue: “L’atto di volturazione della concessione edilizia a favore del successore, a titolo universale o particolare, dell’originario concessionario, sebbene si caratterizzi come atto dovuto e privo di contenuto discrezionale (in quanto diretto solo a verificare che sussistano le condizioni richieste dall’art. 4, comma 6, l. 28 gennaio 1977 n. 10 ed, eventualmente, dallo strumento urbanistico locale vigente perché possa verificarsi il trasferimento della concessione), deve necessariamente materializzarsi in un provvedimento scritto, dal quale risulti compiuto l’accertamento delle condizioni necessarie all’attuarsi della novazione soggettiva nel rapporto concessorio. In difetto del formale atto di volturazione, la vicenda successoria resta confinata, rispetto alla p. a., in un ambito privato tra il titolare originario della concessione ed il suo avente causa, con la conseguenza che quest’ultimo è privo di legittimazione in ordine alle azioni giudiziali relative al rapporto concessorio, risultando legittimato esclusivamente il titolare originario della concessione edilizia (Nel caso di specie, il successore a titolo particolare aveva impugnato il provvedimento con il quale il sindaco aveva dichiarato la decadenza, per mancato inizio nell’anno dei lavori, dalla concessione edilizia; enunciando il principio di cui in massima, le S. U. hanno cassato con rinvio la sentenza del tribunale superiore delle acque pubbliche, la quale erroneamente aveva ritenuto sussistente detta legittimazione, nonostante il successore fosse privo di un formale atto di voltura del titolo)” (Cassazione civile, sez. un., 22/10/2003, n. 15812).
Quanto alla seconda doglianza, impingente nel difetto delle condizioni di legge, per poter pronunciare l’annullamento, in autotutela, del p. di c., a suo tempo rilasciato dal Comune di Castellabate, e nel superamento del termine ragionevole, per poter procedere a tanto, e partendo da quest’ultimo rilievo, rileva il Collegio come tra il rilascio del titolo, in data 17.01.2013, e la (prima) comunicazione d’avvio del procedimento, infine sfociato nell’adozione del provvedimento di secondo grado, in data 27.06.2013, non erano decorsi neppure sei mesi; si tratta di un termine assolutamente congruo all’esercizio dei poteri de quibus, e la circostanza che l’annullamento sia, poi, intervenuto a distanza di oltre un anno dall’iniziale avviso, ex art. 7 l. 241/90, non elimina affatto tale constatazione (il lasso di tempo ulteriore essendo comunque decorso nella piena consapevolezza, da parte dei ricorrenti, della potenziale caducazione degli effetti del titolo abilitativo loro rilasciato).
Quanto, ancora, alla dedotta assenza delle condizioni per poter annullare detto titolo, deve concordarsi con la difesa dell’Amministrazione Comunale, la quale ha osservato come lo stesso sia stato inizialmente rilasciato, sulla base di attestazioni erronee, da parte del richiedente, circa la sussistenza dei requisiti, per poter beneficiare della modifica della destinazione d’uso, da volumetria esistente non residenziale, a volumetria residenziale, previsti dalla l. r. 19/2009; ne deriva, come ritenuto in giurisprudenza, che: “Quando l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea rappresentazione della realtà in capo all’amministrazione procedente causata dal comportamento del richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell’atto può ritenersi sussistente “in re ipsa”, non opponendosi a ciò posizioni di interesse del privato degne di particolare tutela” (T. A. R. Catania (Sicilia), Sez. I, 14/01/2014, n. 1; conforme: T. A. R. Milano (Lombardia), Sez. II, 4/04/2013, n. 841).
Si trascorre, così, al fulcro del giudizio, vale a dire se, nella specie, il ricorrente Squillaro Virgilio avesse titolo ad avvalersi della disposizione di cui all’art. 4, comma 3, della l. r. Campania n. 19/2009, che recita: “Per gli edifici a prevalente destinazione residenziale, nel rispetto delle prescrizioni obbligatorie di cui al comma 4, è consentita, in alternativa all’ampliamento della volumetria esistente, la modifica di destinazione d’uso da volumetria esistente non residenziale a volumetria residenziale per una quantità massima del venti per cento”.
Il Comune di Castellabate ha ritenuto che tanto non fosse consentito, e che, pertanto, sussistessero le condizioni per poter annullare, d’ufficio e in autotutela, il p. di c., a suo tempo illegittimamente rilasciato, in quanto lo Squillaro ea proprietario soltanto del sub 2 della p.lla 183 del foglio 17 e non anche della restante parte del fabbricato in oggetto, o almeno di una quota, di detto fabbricato, sufficiente a far maturare l’assentibilità del cambio di destinazione d’uso della porzione di fabbricato di sua proprietà, da deposito ad abitazione.
Le considerazioni espresse dal responsabile dell’Area Lavori Pubblici e Governo del Territorio dell’intestato Comune vanno condivise, perché a ragionare diversamente – ovvero a ritenere che il 20% di modifica di destinazione d’uso potesse calcolarsi con riferimento all’intero edificio, quindi computando anche le parti del fabbricato non di proprietà dell’istante – i proprietari – nella specie – della maggior consistenza dell’edificio sarebbero stati illegittimamente privati dell’incremento delle potenzialità edificatorie, inerenti la loro proprietà, come stabilito dalla l. r. 19/2009.
Per di più, l’art. 4 comma 3 cit. s’applica agli “edifici a prevalente destinazione residenziale”, laddove l’immobile di proprietà dei ricorrenti era un deposito, quindi era carente – in radice – il presupposto d’applicabilità della norma (a meno di non ritenere che potesse prescindersi dall’indefettibile requisito della titolarità delle restanti porzioni, in cui l’immobile medesimo era frazionato, il che – giusta quanto sopra osservato – non è, ovviamente, consentito).
Del resto, nel senso patrocinato dal Comune milita anche la considerazione dell’indirizzo della giurisprudenza, espresso nella massima seguente: “Gli interventi straordinari di ampliamento fino al 20 per cento della volumetria esistente, di cui all’art. 4 l. reg. Campania 28 dicembre 2009 n. 19 (c.d. piano casa), sono consentiti solo con riferimento all’intero edificio e non anche a singole frazioni di esso, con la conseguenza che le richieste di interventi di ampliamento non possono essere formulate anche da proprietari di singole frazioni dell’immobile” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 6/03/2015, n. 1144).
Le spese seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.
Emergono eccezionali motivi per compensarle, quanto a Villa Luisa, avente causa dell’alienazione dell’immobile e, per tale ragione, pure destinataria della notificazione del ricorso, ma non costituitasi in giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania – Sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna Squillaro Virgilio e Cannalonga Rosetta, con vincolo di solidarietà tra loro, al pagamento, in favore del Comune di Castellabate, in persona del l. r. p. t., nonché in favore di Russo Palma Rosa, dei compensi e delle spese di giudizio, che liquida complessivamente in € 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre accessori, come per legge.
Compensa le spese, quanto a Villa Luisa.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso, in Salerno, nella camera di consiglio del giorno 5 luglio 2016, con l’intervento dei magistrati:
Amedeo Urbano, Presidente
Giovanni Sabbato, Consigliere
Paolo Severini, Consigliere, Estensore






L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE
Paolo Severini

Amedeo Urbano















IL SEGRETARIO