Il baratro fiscale
dell’Agenda Monti – Luciano Gallino (Repubblica)
8/1/2013
Non ci sono solo gli
Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di
natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio,
sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento
quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato
sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo,
Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito
pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore..
del 60%… tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un
ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente
regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta
del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.
L’agenda Monti
riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a
ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che
dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser
chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi
richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta
oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero
Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in
serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da
essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni
‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo
alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate
da Monti e riproposte dalla sua agenda.
Al fine di ripagare
un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione:
che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia
ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in
media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico
italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per
cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha
superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come
prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi
l’anno per un ventennio.
La cifra è di per sé
paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è
solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento,
comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito
pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il
debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui
restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è
salito a 2028 miliardi (2000-50+78).
L’anno dopo taglio
il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per
cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari
inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del
fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui
l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire,
potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma
con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200
miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.
Le obiezioni da
opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto
avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5
miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di
rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla
dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di
miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti;
qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda
teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo
Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013
arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.
Ciascuna delle
suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla
svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte
delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti
o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno
afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.
Naturalmente il
problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la
sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni
potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare
nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la
strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave
regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca
coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna
riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su
scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse
del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia.
Un riconoscimento al
quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in
verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche
(lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1
per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono
obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o
quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro
direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo
dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al
mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si
dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione.
Con il baratro
fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è
inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla
Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento,
come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe
diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone
realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.
Nessun commento:
Posta un commento
se vuoi commentare puoi utilizzare questo spazio