"Una concezione ingenua del diritto tende a considerarlo solo un sistema di norme destinate a regolare i rapporti sociali, garantendo modelli minimi di comportamento che rendano possibile la convivenza sociale. In questo senso il diritto si limiterebbe a ricevere valori sociali creati da altre sfere dell'attività culturale e conferirebbe loro una forza vincolante garantita dalla coercizione. In verità l'efficacia creatrice (poietica) del diritto è molto maggiore. esso non crea solo pace e sicurezza, crea anche, in buona misura, gli stessi valori sui quali questa pace e questa sicurezza si fondano. In questo senso il diritto costituisce un'attività culturale, sul piano sociale altrettanto creativa che l'arte, l'ideologia o l'organizzazione della produzione economica."
IL GIURISTA E' FUORI DAI CODICI ------- Avvocato Vincenzo Montone ------- Castellabate (SA) via Colombo 11 ------- +39 0974960347 ---- montonevince@libero.it
giovedì 28 febbraio 2013
martedì 19 febbraio 2013
CHIARE LETTERE (5)
Il tribunale unico dei brevetti e l'esclusione dell'Italia
dal “Corriere della Sera” del 19 02 2013
dal “Corriere della Sera” del 19 02 2013
(a.jac.) È in arrivo un nuovo sistema di tutela dei brevetti che cambierà completamente le regole del gioco.
Ma nessuno in Italia pare abbia ben chiaro quale ne sia l'impatto soprattutto sulla piccola e media impresa.
Si sta costituendo a livello europeo una Corte centralizzata dei brevetti: oggi a Bruxelles dovrebbe essere ratificato da ogni Stato membro della Ue il testo dell'accordo che ne sancisce la nascita.
L'Italia, che ha partecipato alle negoziazioni, si è opposta (senza successo) solo alla decisione di adottare come lingue ufficiali per il brevetto unitario, inglese, tedesco e francese.
«Un aspetto del tutto marginale - sottolinea Gabriel Cuonzo dello studio Trevisan & Cuonzo -.
L'aspetto più delicato della vicenda è l'istituzione di una Corte centralizzata che alla fine avrà come sedi Parigi, Monaco/Düsseldorf e Londra, aspetto che non è stato oggetto di approfondita discussione né a livello comunitario né italiano».
Secondo Cuonzo da noi né le istituzioni né le associazioni imprenditoriali hanno compreso le conseguenze economiche e operative, potenzialmente devastanti, che il nuovo sistema avrebbe sul tessuto industriale italiano, costituito in massima parte dai «piccoli».
Altri Paesi hanno avviato per tempo un dibattito pubblico sul tema:
«Il problema è anche culturale - spiega Cuonzo -.
L'Italia non è pronta a competere sul piano della tutela brevettuale con Paesi e sistemi industriali infinitamente più avanzati di noi.
Le nostre imprese producono pochi brevetti.
Basti pensare che in base ai dati pubblicati dall'Ufficio Europeo Brevetti, nel
Per non parlare delle quasi 60 mila domande Usa».
Dunque, nel nuovo sistema, le imprese italiane rischierebbero di trasformarsi in prede facili per i competitor europei, meglio attrezzati sotto il profilo della tutela brevettuale.
Mentre oggi i brevetti hanno validità territoriale, con il nuovo sistema un'azienda italiana potrebbe essere citata per contraffazione, ad esempio, dalla sezione tedesca della Corte centralizzata che potrebbe deciderne addirittura la chiusura o il sequestro dei prodotti: causa tutta in tedesco, giudice lontano migliaia di chilometri dall'eventuale sede dell'azienda.
Con un aggravio di costi, a fronte di tradizioni giuridiche e sensibilità completamente diverse da quelle nostrane.
«Il trattato in sé non è né bene né male, ma prima di adottarlo bisognerebbe valutarne l'impatto a livello locale.
Siamo di fronte a una globalizzazione europea della giustizia adatta più alle multinazionali a cui può far comodo fare una causa unica in Europa ma per le piccole e medie imprese non si sa».
giovedì 14 febbraio 2013
CHIARE LETTERE (4)
Il baratro fiscale
dell’Agenda Monti – Luciano Gallino (Repubblica)
8/1/2013
Non ci sono solo gli
Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di
natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio,
sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento
quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato
sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo,
Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito
pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore..
del 60%… tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un
ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente
regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta
del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.
L’agenda Monti
riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a
ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che
dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser
chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi
richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta
oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero
Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in
serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da
essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni
‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo
alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate
da Monti e riproposte dalla sua agenda.
Al fine di ripagare
un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione:
che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia
ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in
media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico
italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per
cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha
superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come
prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi
l’anno per un ventennio.
La cifra è di per sé
paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è
solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento,
comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito
pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il
debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui
restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è
salito a 2028 miliardi (2000-50+78).
L’anno dopo taglio
il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per
cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari
inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del
fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui
l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire,
potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma
con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200
miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.
Le obiezioni da
opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto
avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5
miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di
rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla
dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di
miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti;
qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda
teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo
Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013
arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.
Ciascuna delle
suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla
svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte
delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti
o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno
afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.
Naturalmente il
problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la
sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni
potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare
nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la
strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave
regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca
coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna
riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su
scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse
del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia.
Un riconoscimento al
quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in
verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche
(lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1
per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono
obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o
quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro
direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo
dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al
mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si
dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione.
Con il baratro
fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è
inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla
Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento,
come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe
diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone
realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.
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CHIARE LETTERE (3)
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Vincenzo montone
venerdì 8 febbraio 2013
CRONACHE GIUDIZIARIE (1)
MILANO: CORRUZIONE E
FAVOREGGIAMENTO TRA LE ACCUSE AL MAGISTRATO GIGLIO E AL POLITICO PDL MORELLI
Il
giudice anti 'ndrangheta che rivelava tutti i segreti al boss
Condannato
assieme a un consigliere regionale calabrese
Il
più in vista nella corrente di sinistra di «Magistratura democratica» in
Calabria. Il più stimato nella delicatissima Sezione delle misure patrimoniali
di prevenzione, che presiedeva al Tribunale di Reggio Calabria firmando
sequestri anche per centinaia di milioni alle cosche. Il più impegnato nelle
iniziative anti 'ndrangheta, sebbene poi rivelatesi solo di facciata («fanno
fico») alla spietata controprova delle intercettazioni.Ma da ieri il 53enne
Vincenzo Giuseppe Giglio è anche un magistrato condannato in primo grado a 4
anni e 7 mesi per corruzione, rivelazione di segreto e favoreggiamento proprio
per aver aiutato la 'ndrangheta con tre tipi di rivelazioni di notizie
sensibili. La prima all'imprenditore delle slot machine Giulio Lampada, ieri
condannato per associazione mafiosa e corruzione a 16 anni e 1,4 milioni di
euro di risarcimento al Comune di Milano in solido con coimputati come Leonardo
Valle (9 anni e 6 mesi), Maria Valle (3 anni e 3 mesi), Francesco Lampada (4
anni e 6 mesi), Raffaele Ferminio (7 anni). Boss giovane e rampante, Giulio
Lampada, che con escort e vacanze pagate in hotel poteva già contare sul
magistrato calabrese Giancarlo Giusti (4 anni a fine 2012 nel giudizio
abbreviato costato 4 anni e mezzo anche all'avvocato Vincenzo Minasi), (…) È
stato il pm Paolo Storari, dal giorno degli arresti nel novembre 2011, a prospettare il
rapporto Giglio-Morelli come un «intreccio» nel quale «entrambi
strumentalizzano la propria funzione pubblica per soddisfare reciproci
interessi personali. Il magistrato chiede il favore al politico», e cioè «un
posto fortemente operativo e non di mera rappresentanza» per la moglie
aspirante a una poltrona Asl, «e il politico va all'incasso ottenendo
informazioni vitali per il suo percorso politico», cioè l'informazione
sull'assenza di formali indagini a suo carico: notizia che il giudice sembra
attingere alla Direzione nazionale antimafia e comunica al politico mandando la
moglie a spedire un fax da una tabaccheria di Reggio Calabria a una tabaccheria
di Roma, (…)
Ferrarella Luigi
Pagina 23
(07 febbraio 2013) - Corriere della Sera
(07 febbraio 2013) - Corriere della Sera
AZIONE PENALE A ZELO ALTERNATO
Essendo un
indispensabile ingranaggio del meccanismo giurisdizionale, tante volte me ne
sono vergognato.
Come stamattina,
mentre le mani callose dell’omino di fronte a me spiegavano un avviso di
garanzia, appena consegnato.
Non guardavo
tanto l'avviso - due righe mi erano bastate - guardavo quelle mani di pescatore
e la faccia: antica, segnata, umile; come avrei fatto a spiegargli
l'ingranaggio?
Corpo del reato
è un capanno per ripararci le reti, tredici metri quadrati, unoenovanta di
altezza, recintati da legno e tettoia di plastica.
Accertamento dei
Vigili Urbani, trasmesso alla Procura, ne era scaturito un procedimento penale
per reati edilizi e paesaggistici, nonostante l'omimo avesse subito demolito
tutto, proprio per non avere problemi.
E non mi parlate
di quella panzana dell'azione penale obbligatoria: negli ultimi tre anni
l'ufficio che persegue l'omimo non è riuscito a rinviare a giudizio ben due
indagati di violenti omicidi.
Riepilogo le
cronache: pensionato insaccato a pezzi, prostituta sotterrata; due sospettati
in custodia cautelare con gravi indizi ma l'ufficio giudiziario non conclude le
indagini nel tempo massimo.
Così i due
presunti omicidi ritornano liberi in attesa di un giudizio che, per l'omimo del
capanno, è già iniziato.
Come farò a
spiegarglielo?
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Vincenzo montone
mercoledì 6 febbraio 2013
CHIARE LETTERE (2)
Dal “CORRIERE DELLA SERA” del 05 02 2013
VERE ÉLITE E CIRCOLI DEL POTERE
Le relazioni miracolose
Che cosa indica nell'Italia di oggi la parola notabile? Non è forse solo un modo volutamente - ma immotivatamente - spregiativo di definire l'élite, cioè quel vertice che esiste e adempie a un ruolo decisivo in ogni società? Non credo. Notabili ed élite sono cose diverse e proprio l'Italia ne è una prova: tra l'altro - come dirò - con l'uso tanto diffuso quanto ambiguo dell'espressione «società civile».
L'élite propriamente detta è composta
di figure (spesso con un adeguato sfondo familiare) dotate di competenza in
ruoli specifici nel campo delle attività private o dell'amministrazione, nonché
di riconosciuto valore, integrità e successo.
Il notabile italiano, invece, è
un'altra cosa. È innanzitutto (ma in misura minore) chi, a partire da una base
di eccellenza personale, arriva alla politica per cooptazione ma vi rimane poi
di fatto vita natural durante (sempre eludendo però il meccanismo della ricerca
del consenso elettorale grazie al seggio parlamentare o altro ruolo pubblico
assegnato «dall'alto»). Sono, per antonomasia, quegli «intellettuali» e
«tecnici» beneficiati in particolare dalla Sinistra, salvo quelli - in genere i
migliori tra loro - che dopo una legislatura capiscono come stanno le cose e tagliano
la corda. Vi è poi un secondo tipo di notabile, quello diciamo così più
autentico, il notabile doc. È colui al quale, forte di opportune relazioni
personali quasi sempre politiche (di rado un'eccellenza professionale), non
viene già offerto di svolgere uno specifico incarico pubblico in relazione alle
sue competenze, bensì - sia pure talora a partire da queste - viene cooptato in
un circuito di potere diffuso, al cui centro c'è sempre e comunque la politica.
Per rimanervi anch'egli vita natural durante. È il jolly del potere italiano. È
il notabile che può essere e fare di tutto: guidare un gabinetto o un ufficio
legislativo, un'Authority, un governo tecnico, l'Aspen, un'enciclopedia, un
ente pubblico, una fondazione bancaria, il Touring Club, la Federazione Giuoco
Calcio, il Cnel, una società aeroportuale, la Cassa depositi e prestiti, Cinecittà, la Rai , un Consiglio superiore di
qualunque ministero, le Poste, insomma tutto. Oltre che, beninteso, sedere in
centinaia dei più vari consigli di amministrazione; e naturalmente tutto ciò
per decenni, passando da un posto all'altro senza alcuna particolare
competenza, e magari sommando contemporaneamente le prebende e gli incarichi
più eterogenei (inclusi quelli parlamentari).
Come si vede, in Italia è la politica
il brodo di coltura essenziale di questa categoria di persone. Non solo perché
è la politica, con il suo storico statalismo, che assicura l'enorme estensione
delle posizioni, dei posti disponibili per i notabili, ma perché essa
costituisce l'amalgama omogeneizzante (ormai transpartitico) che rende
possibile la compenetrazione/sovrapposizione di tutto e di tutti: e dunque la
moltiplicazione diffusiva del potere di ognuno. È così che per esempio
qualunque notabile può assicurare un posto al proprio coniuge o al proprio
figlio in pratica dappertutto. È per l'appunto sempre questa esigenza della
compenetrazione, in vista dell'accrescimento della capacità d'influenza, che
spiega la tenace propensione del notabilato italiano di origine politica ad
autonomizzarsi. In particolare dando vita e riconoscendosi in reti di legami
alternativi a quelli ufficiali di tipo politico-partitico: da quello di
parentela (più frequente di quanto si pensi) al legame di tipo massonico, oggi
più in voga che mai, a quello delle «cricche» e consorterie consimili.
Cresciuto enormemente in potenza con
la seconda Repubblica, il notabilato è divenuto in tal modo, e sempre più
spesso, il serbatoio e insieme il traguardo, la «sistemazione», del ceto
politico, una volta lasciato l'impegno parlamentare.
Se così stanno le cose si capisce perché è tanto difficile per l'Italia avere una classe dirigente. Questa è possibile, infatti, quando l'élite come l'ho definita sopra (figure con competenza in ruoli specifici, di riconosciuto valore, integrità e successo), quando i membri di tale élite, dicevo, sono in grado di accedere ai luoghi del comando pubblico (statale e non). Proprio ciò in Italia però non avviene, non può avvenire, dal momento che tali luoghi sono pressoché interamente monopolizzati dal notabilato d'origine politica. Il quale vi impone le sue regole: prima di ogni altra la regola della inamovibilità. Il massimo a cui un membro dell'élite può aspirare in Italia è un inutile posto di senatore o deputato, nel quale si accorgerà presto chi è che comanda davvero. In quest'ottica emerge in pieno il carattere sostanzialmente di alibi che finisce per avere la nozione di «società civile»: una nozione, guarda caso, che solo qui da noi ha la diffusione che sappiamo. Ma che in realtà serve al ceto politico per evitare un confronto vero con le eccellenze sociali, con l'élite vera e propria, e di conseguenza per evitare il problema di dar vita ad un sistema di potere complessivamente diverso dall'attuale. Viceversa l'evocazione rituale della «società civile» serve piuttosto per fingere di rinnovarsi, di «andare verso il popolo», approvvigionandosi (tuttavia solo in occasione delle elezioni) di persone, perlopiù sconosciute o di secondo rango, e però pomposamente esibite come provenienti per l'appunto dalla «società civile». Destinate regolarmente, come è ovvio, a non contare niente e a poter fare ancor meno.
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
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CHIARE LETTERE (1)
Il
monitificio
MASSIMO
GRAMELLINI da "LA STAMPA" del 06 02 2013
Saranno piovute anche a casa vostra le immagini arabescate dei tg sull’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti, la magistratura che ha il compito di fare le bucce ai bilanci dello Stato. Un rito che il potere mette in scena ogni primo martedì di febbraio. In un’aula stipata di giudici spagnolescamente agghindati, alla presenza delle Gentili Autorità e di carabinieri muniti di pennacchio, un giudice più agghindato degli altri, il Presidente, pronuncia discorsi solenni in una lingua arcaica e sovrabbondante, la cui sintesi è: facciamo schifo. La corruzione ha raggiunto livelli sistemici (gli incorruttibili vengono ormai additati nei corridoi dei ministeri come anime bizzarre), le imprese sono strangolate da mazzette e mancati pagamenti, il lavoro è soffocato da tasse e austerità, le famiglie boccheggiano.
Un ritratto della nazione che, liberato
dalle sue bardature linguistiche, potrebbe essere stato scritto da un
rivoluzionario con dolori alla cistifellea o più banalmente da chiunque di noi,
ma che contrasta col contesto parrucchiforme in cui viene declamato. Ogni anno,
al termine del discorso, mi aspetto sempre che il Presidente ordini ai
carabinieri col pennacchio di arrestare parecchie delle persone sedute nelle
prime file, sicure corresponsabili del disastro. Invece il fustigatore si
limita ad auspicare una presa di coscienza che il quadro appena delineato rende
necessaria e addirittura impellente, eccetera. A quel punto gli accusati
applaudono l’accusatore e poi tutti vanno a pranzo perché si è fatta una
cert’ora. Anche ieri. Se stanotte mi verrà un incubo, sarà a forma di
monito.
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